martedì 25 ottobre 2011

Una riflessione deopo l'assemblea del 21 ottobre... e la proposta di rivederci il 3 novembre

L’assemblea che abbiamo promosso per venerdì 21 ottobre, presso la città dell’altra economia si intitolava “Dopo il 15 ottobre - Riprendiamoci la parola, a viso scoperto”.
Ha visto una partecipazione forse imprevista date le nostre forze. Chi ha il vizio da assemblea ha contato un centinaio di persone che hanno scelto di venire ad ascoltare e parlare. Donne e uomini di generazioni e culture politiche diverse, molti fuori dalla politica attiva, molti impegnati in organizzazioni sindacali, collettivi studenteschi, comitati e associazioni, anche direttamente impegnati nel coordinamento 15 ottobre.
Forse anche perché questo incontro tentava di riempire un vuoto. Dopo la giornata di sabato 15, disastrosa e al tempo stesso segno di una grande potenzialità, in molti e molte ci siamo trovati davanti ai video in rete e ai blog senza occasioni collettive di confronto e condivisione. Anche qui si rivela un limite delle organizzazioni promotrici della giornata. Tra i pochi altri appuntamenti l’assemblea degli “accampati” a piazza S.Croce in Gerusalemme e l’assemblea in contemporanea alla nostra dell’area di Action.
Possiamo quindi dire di essere molto soddisfatti/e. Eppure, dopo l’incontro, era diffusa una sensazione di insoddisfazione e frustrazione per la difficoltà a farne emergere le ragioni, la fastidiosa sensazione di dover ricominciare ogni volta da capo a spiegare che nonviolenza non vuol dire rinuncia, moderatismo, passività, pacificazione dei conflitti.
È stato certamente anche per un nostro errore: la giusta volontà di ascoltare e di costruire uno spazio di condivisione di vissuti di chi sarebbe venuto ci ha portanti a non esplicitare in modo netto un punto di vista, una riflessione, un approccio.
E invece, proprio nell’incontro alla città dell’altra economia, abbiamo concordato che di questo c’è bisogno: mostrare un’alternativa possibile, riproporre una critica delle dinamiche gerarchiche, una memoria di pratiche che hanno tentato di costruire un nesso tra mezzi e fini, tra la propria idea di società e il proprio linguaggio, il proprio modo di decidere e di lottare, offrire un punto di vista che esca dalle secche della discussione su violenza si o no e o delle analisi dietrologiche o strategiche sul risiko degli scontri.
Insomma non basta una posizione un po’ “equilibrista” di rifiuto della violenza come “inopportuna” o in quanto “espressione di un percorso non condiviso”. È necessaria una nuova radicalità senza complicità.
Non ci basta riconoscere, come è vero, che la messa in campo di forme di lotta violente impedisce l’allargamento della mobilitazione e favorisce le campagne di stampa che cancellano le ragioni della mobilitazione.
Vogliamo che i nostri gesti, le nostre parole, siano capaci di una maggiore radicalità, che rompano con il conformismo al militarismo, al virilismo, all’estetica del gesto atletico che, non a caso, si riproducono negli stadi.
La giornata di sabato ha segnato la fine dell’illusione di poter giocare con la rappresentazione simbolica della violenza senza subirne l’egemonia, .
È finita l’ipocrisia di considerare la scelta della violenza come “una pratica tra le altre” e lasciare che qualcuno “si sfoghi” a margine del corteo. La messa in gioco della violenza ha sempre l’effetto di sovrapporsi e pregiudicare altre pratiche, per minacciare l’incolumità di tutti e per stravolgere il terreno di impegno e le priorità condivisi e dunque non basta scegliere di non praticarla: va ingaggiato un conflitto politico e culturale per criticarla.
Il rifiuto di dividere in buoni e cattivi è una strategia ipocrita che sfugge alla necessità di esprimere un giudizio politico.
Prima ancora della dimensione materiale è una sconfitta la subalternità all’immaginario della violenza: l’estetica del gesto contro la costruzione del processo, l’uniformità delle “falangi” schierate e in divisa contro la pluralità e l’esplicitazione dei conflitti, la delega al leader o agli “esperti” contro la costruzione di pratiche partecipate, la conquista delle prime pagine che occulta la pluralità delle storie e delle proposte in campo, la riduzione del conflitto a scontro tra due muri che, al tempo stesso, nega lo spazio per esplicitare differenze e conflitti all’interno del proprio campo.
Il richiamo alla retorica del tradimento, la logica dello schieramento, la negazione d ci fanno quasi più orrore dei cassonetti bruciati perché sono esplicita rinuncia al conflitto, e alla pluralità.
Le frasi che abbiamo scelto: “se non posso ballare non è la mia rivoluzione”, “trasformare la rabbia in politica” volevano proprio sottrarsi a quell’immaginario. Rifiutare la retorica un po’ paternalista della rabbia come giustificazione alla violenza, rifiutare i riti un po’ lugubri di chi ama giocare alla guerra, rifiutare di delegare “a chi se ne intende e a chi se la sente” di determinare gli spazi in cui manifestare.
Rifiutare la specularità e la subalternità con l’avversario: il ministro che traccia la linea rossa da penetrare, lo schieramento di polizia da fronteggiare…
Rifiutare l’altro luogo comune, emerso anche durante l’assemblea, di una violenza come parte della natura umana. Certo: nelle pulsioni umane ci sono la rabbia, l’aggressività… Ma proprio la forma in cui si esprimono sono frutto della cultura, e di modelli imposti. Abbiamo imparato a non accettare come “naturali” ruoli, attitudini, pulsioni. Il testosterone, insomma, non è un destino che rende gli uomini succubi dell’adrenalina che si diffonde in occasione degli scontri, così come per le donne non è un destino l’attitudine alla cura.
Le donne che in armi affrontano virilmente lo scontro non sovvertono questo schema ma ripropongono in forme aggiornate la vecchissima prospettiva della omologazione. E non le preferiamo alle donne manager.
Il vuoto politico si mostra non solo nell’assenza di occasioni di discussione sul trauma vissuto da chi ha manifestato ma anche nell’assenza di iniziative politiche concrete per giungere all’accertamento delle responsabilità nella gestione dell’ordine pubblico. Abbiamo per questo deciso di intraprendere un’ iniziativa nei confronti del Prefetto, del questore, del Sindaco di Roma e del Ministero degli Interni per l’inosservanza dei protocolli previsti e per la mancata messa in atto delle azioni a tutela dei manifestanti, dei cittadini e dei beni comuni della città.
Nell’incontro abbiamo detto quindi che le forme politiche non sono un accessorio ma un contenuto. Che la violenza o la disponibilità allo scontro non sono sintomo di radicalità e che la radicalità non consiste nel pensare impossibile il cambiamento ma al contrario nel riaffermare che la politica può e deve pensare la trasformazione.
In questo senso la discussione su forme e linguaggi del conflitto è strettamente legata a una cultura politica che non separa conflitto sociale e governo. Pensare un conflitto condannato alla rivolta senza sbocchi e un governo come  prospettiva che rinuncia alla trasformazione e si rassegna alla gestione vuol dire introiettare la sconfitta.
Abbiamo, insomma molto da fare:
• provare a produrre materiale che si sforzi di rendere il senso di una discussione che non ha niente a che fare con strategie e tattiche di piazza ma con l’idea di socialità e di libertà che vogliamo costruire , provare a costruire un dialogo con chi, nell’università, nelle scuole, nelle vertenze tematiche e territoriali oggi si interroga su quello che è accaduto e su come non ripiegarsi nello schema: violenza, repressione, lotta alla repressione.
• giungere ad un altro appuntamento in cui approfondire ed esplicitare meglio gli spunti emersi
• ascoltare cosa si produce nei luoghi che tentano di sperimentare linguaggi e pratiche innovative
• proporre un’iniziativa che pretenda una risposta dai responsabili istituzionali del disastro di Roma.
Forse le nostre forze non sono sufficienti a questo scopo. Forse l’assunzione di missioni velleitarie è parte di un’idea della politica da superare. Anche tra noi, poi, è necessario allargare responsabilità, partecipazione condividere e costruire autorevolezza.
I tanti indirizzi email lasciati durante l’incontro, i messaggi ricevuti prima e dopo li consideriamo una domanda ma anche una risorsa.

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