venerdì 16 dicembre 2011

I TANTI NEMICI DAL VOLTO NON UMANO di Monica Pasquino

Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia.
Emmanuel Lèvinas 

Di recente, in Europa, non solo in Italia, si è assistito all’intensificarsi di manifestazioni violente e collettive di razzismo. Le cronache di queste vicende si assomigliano tutte.
In ogni storia c’è un nemico dal volto non umano, l’ombra che mette in pericolo la forma di vita “comune” e che viene colpita:le persone straniere, migranti, zingare, mendicanti, omosessuali e transessuali. Il processo di stereotipizzazione, che arriva fino alla disumanizzazione dei soggetti subalterni o minoritari, è la precondizione che rende socialmente accettabile gli atti di ingiustizia, violenza e discriminazione verso queste (ed altre) soggettività. A pochi giorni dall'attacco al campo rom di Torino, la strage dei due senegalesi a Firenze, Samb Modou e Diop Mor, è solo l’ultimo episodio archiviato nel libro delle cronache.

Tutte le cronache si assomigliano anche per un altro aspetto: i fatti che raccontano avvengono in un clima di paura alimentato dai processi europei di illegalizzazione. I Paesi Membri dell’Unione Europea portano avanti da anni politiche che rendono sostanzialmente impraticabile, per la maggior parte dei migranti, la possibilità di diventare immigrati regolari: vite che diventano “clandestine” attraverso un atto legale e che sono continuamente evocate come pericolo sociale. Oltre che essere privi di diritti e tutele concrete, minacciati costantemente dall’espulsione, i clandestini si affacciano sul mercato del lavoro come soggetti vulnerabili e ricattabili, svolgendo mansioni che i nativi giudicano pesanti o umilianti.

Tutte le cronache si assomigliano. Soprattutto qui in Italia, dove da tempo nei discorsi istituzionali, politici e mediatici, si rinforza il frame immigrazione = invasione = minaccia per l’identità collettiva. La difesa del nostro posto di lavoro e dei nostri privilegi, la retorica della sicurezza e del decoro, la preservazione della cultura nazionale e dell’identità dell’Europa “cristiana-liberale-democratica”: questi sono i leitmotiv che producono senso comune e contribuiscono alla (ri)produzione della determinazione fenotopica del nemico dello Stato-nazione da mettere al bando. Abbiamo già assistito troppe volte anche all’apparizione del fantasma dello stupro e all’uso strumentale delle donne per rafforzare narrazioni che contrappongono il “noi” al “loro” e per promuovere atteggiamenti sospettosi quando non dichiaratamente razzisti.
Dando sostanza alla figura del migrante come nemico, la reiterazione nella scena pubblica del discorso sulla sicurezza contribuisce alla criminalizzazione dei cittadini stranieri. Dal momento che il discorso pubblico concorre a costituire i soggetti sociali e gli eventi storici tanto quanto le basi materiali o economiche, esso fornisce la giustificazione per una politica intransigente di controllo dei flussi alle frontiere e per l’instaurazione di uno stato di sorveglianza e mina le fondamenta del principio di eguaglianza e del diritto di libero movimento degli individui.

Come accade in ognuna di queste cronache, la banalità del male affonda le sue origini anche in un inquietante, basilare paradosso: il soggetto normale – e quindi universale - tutelato e garantito in quanto tale, si sente legittimato a colpire l’altro, il suo competitor, per difendere e riconfermare la propria (unica) universalità. Le aggressioni si realizzano in modo individuale (parole, atti oltraggiosi, violenze), con livelli ovviamente diversi di responsabilità e gravità, ma non solo, anche attraverso forme di controllo politico, attraverso la diffusione su larga scala di descrizioni stereotipanti, attraverso l’introduzione di norme discriminatorie, che alimentano nuove terribili storie e nuove  vergognose cronache.

La paura di perdere diritti e denaro è reale, ma è generata dalla governance finanziaria e dal capitalismo globale, dalle politiche populiste, dalla crisi economica, non certo da soggetti che, in tutti i sensi, vivono ai margini della società. Per proporre un’alternativa a questa narrazione, ben interpretato dalle destre e spesso anche da segmenti importanti del centro-sinistra, dobbiamo ribaltare il piano: non più piccole eccezioni al diritto e alle politiche universalistiche, rivolte alle singole minoranze, che creano un piano di discriminazione positiva, ma una politica pubblica che sia rivolta a un soggetto plurale, aperto, che non si presume più maschio, nativo, eterosessuale e che non si arroghi più il diritto di ferire in quanto uomo “normale”.

Ogni vittoria - sul versante legislativo e sul versante delle politiche pubbliche – ottenuta da una cosiddetta minoranza” travalica il proprio senso particolare se non rimane indipendente e isolata, ma diventa parte di una critica fondamentale e generale all’approccio universalistico.
Quando una minoranza per il riconoscimento dei propri diritti e per difendere la propria esistenza, sta lottando per essere considerata come appartenente alla comunità umana e per questo deve esplicitare il portato rivoluzionario del suo obiettivo: attuare una trasformazione sociale del significato stesso di persona, estendere i limiti attraverso i quali si articola il concetto dell’umano.

Lottiamo per il pieno diritto di cittadinanza di  tutt* e apriamo la categoria dell’umano a nuove declinazioni.
Restiamo umani, direbbe un vecchio amico.


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